18 anni. 18 anni e aver già perso una vita dentro di sé.
18. Possibile che possa capitare persino a 18 anni?
Cammino verso l’ospedale. 18. La stessa età di mio figlio.
18 e avere tutta la vita di fronte.
Ma come si affronta la vita se così giovani si é perso un bambino ad un passo dalla sua nascita?
Entro.
Mi dicono che ha partorito nella notte. Che c’era anche il suo ragazzo, che le è stato sempre vicino. Lui ha 21 anni.
Mi dicono che non hanno voluto vedere la loro bambina. Ora la piccola è là in fondo avvolta in un telo, sola, in attesa che vengano a prenderla per portarla in obitorio.
C’è poco tempo. Il tempo stringe. Verranno a prenderla presto. E dopo sarà troppo tardi.
Salgo le scale. Busso. Apro la porta.
Una ragazza avvolta da una luce primaverile, giovane e bella e lì sdraiata, sola, che guarda e accarezza il suo peluche posato sulla pancia.
Mi accoglie con un timido sorriso.
Le chiedo se le va di parlarmi.
Mi sorride e dice sì.
Mi siedo.
Mi dice:
Sono triste.
Le dico:
Condoglianze.
Mi racconta un po’ la sua storia. Una storia fatta di pezzi di sè. E poi di lei. La sua bambina. Mi dice che la volevano, intuendo forse il pregiudizio legato alla sua giovane età.
Mi racconta della sensazione di movimenti affievoliti. E poi di una pancia bassa, senza vita. E di un sogno premonitore. Lei che camminava vicino l’obitorio a fianco l’ospedale.
La decisione di farsi visitare. E infine la notizia:
Non c’è battito.
L’arrivo in ospedale. Il parto.
E ora. Lì sola. A fissare il suo peluche. Un regalo di San Valentino di lui. Un peluche che tiene loro compagnia da tanto tempo, che immaginavano potesse divenire un gioco per la loro bambina.
Entriamo in relazione. Ci teniamo per mano mentre parliamo. Anch’io accarezzo il peluche che mi guarda posato su quella pancia improvvisamente vuota.
Le chiedo se hanno visto la bambina. Mi dice no. Le chiedo i motivi.
Ho paura che mi impressioni, poi non potrò più pensarla come la immaginavo.
Le spiego perché incontrare la sua bambina può essere importante. Come non vi siano purtroppo scorciatoie efficaci a quel dolore. Che non vi saranno bambini che sostituiranno quella bambina, ma fratelli e sorelle.
Che anche per questo può essere importante. Per renderla reale, non solo una fantasia o un fantasma del suo domani.
È una scelta. Una scelta difficile, ma che avremmo rispettato comunque. Che era possibile anche scegliere solo di avere una sua foto che avrebbe potuto scegliere di guardare in futuro, se lei voleva.
Il tempo passa. Parla. L’ascolto.
Il tempo stringe. Si impone una scelta che non va imposta. Così si ascolta. Così decide. Lo dice a me e all’ostetrica con la quale ha partorito.
Voglio vederla.
Le spiego:
Potrai vederla solo per un attimo o tenerla di più. Potrai solo guardarla oppure anche tenerla in braccio. Ciò che ti sentirai di potere e voler fare. Nulla di più. Io rimango qui. Ci sarà anche la tua ostetrica. Quella con la quale hai partorito questa notte. Noi staremo con te. Qualunque cosa tu scelga. Ascoltati. Rispettati. Noi siamo qui. Ad ascoltarti. A rispettarti.
Passa il tempo. Il tempo stringe.
Arriva un piccolo fagotto avvolto in un telo azzurro tra le mani dell’ostetrica.
Lei la guarda. Scende qualche lacrima. Sporge le mani. La prende con sé.
Dice:
E’ bella, assomiglia al papà.
Sorride, mentre piange, piano.
Mi guarda piena di un’emozione e di una bellezza difficile da spiegare. Quella di una giovane donna che ha aperto il suo cuore nel buio di una stanza avvolta da una luce primaverile.
Ora mi sento mamma.
Mi dice.
La tiene in braccio. Lì dove prima era posato il suo peluche.
Posso accarezzarla?
«Sì» le dice l’ostetrica e le mostra come fare. Le tocca piano e dolcemente i capelli scuri, il nasino, le mostra le manine. Così lei si abitua. E la bambina diventa come più bella in braccio della sua mamma.
Io accarezzo lei. La accarezzo mentre lei accarezza la sua bambina. Stiamo così per un po’.
Ci dice:
Voglio che la veda anche il papà. Posso?
«Sì» le rispondiamo.
Lo chiama.
Vieni veloce, ho in braccio la bambina. É bellissima…
Dice emozionata.
«Arrivo subito».
Stiamo in silenzio ora. Attendiamo.
Passa il tempo. Il tempo stringe.
Lui entra veloce. Senza quasi salutare. Preoccupato. Guarda lei. Si avvicina. Le prende il viso tra le mani dolcemente. La guarda attento. Controlla come sta.
«Sei sicura che ti faccia bene?»
Sì, dice lei, felice del suo arrivo. Felice di mostrare la loro bambina a lui.
Apre il fagotto azzurro. Lui guarda la loro bambina per la prima volta. Solo allora. Solo dopo aver accertato che lei stava bene. Che fosse tutto a posto.
«Va bene» dice. «Va bene».
Cerca di regolare le sue emozioni. Di calmarsi. Di capire cosa e come fare. Sospira, gira attorno al letto.
Questo ragazzo così giovane, così uomo ai miei occhi ora, ora che lo guardo dopo quello che ha appena fatto. Proteggere il suo amore. Si avvicina con la testa a lei. Sorride alla bambina.
L’ostetrica dice:
In questo ospedale anche i papà possono piangere.
E lui sente il permesso. Piange. Lei gli sorride. Si prendono per mano. La guardano e si chiedono a chi assomigli. Gli occhi, il nasino, la boccuccia. Mi chiede di fotografarli. Infine lui prende in braccio la bambina. Gli chiedo se vogliono rimanere soli. Mi risponde di sì.
Usciamo.
Esco. Nella saletta a fianco ci sono i parenti. La madre di lui arriva da me arrabbiata:
Io non sono d’accordo, voi li state traumatizzando.
La calmo. Le porgo le condoglianze. Le spiego che è un dolore che per essere superato va attraversato. Che è stata una loro scelta. Che stanno bene. Così anche lei finalmente piange. Avvicino la figlia alla madre perché si confortino. Siete la nonna, la zia. Anche voi avete bisogno di sostegno.
Rientriamo. L’ostetrica riprende la bambina dalle braccia del papà. Entrambi la salutano. Lei va.
Rimango con loro. Per dare senso, forse a qualcosa che senso non ha. Ma che è importante che un senso abbia.
Ora. Oggi. Domani. Tra un anno. Tra 18 anni.
In qualunque momento in cui si ricorderanno questo giorno.
Affinché tutti abbiano il proprio posto. In quella famiglia.
Anche quella bambina, Sofia, il suo.
Articolo pubblicato sul n° 100 di D&D, gennaio 2018
Racconto molto commovente e strappa lacrime io so cosa si prova a perdere una figlia ho perso la mia bambina che aveva 5mesi di vita e purtroppo. ti segna la vita
Purtroppo accade, a volte. Sempre troppe volte…